Molestie e intimidazioni

Esistono innumerevoli casi di situazioni a rischio nei quali ricattatori e molestatori la fanno da padroni nascondendosi dietro il paravento della privacy, l’agenzia investigativa AR investigazioni affronta questo tipo di investigazioni con tutte le possibili azioni per accertare e individuare l’identità dei molestatori o molestatrici sia che le molestie siano verbali, sia che siano telefoniche, sia che vengano perpetrate con lettere anonime.

Una delle molestie e intimidazioni più frequenti riguarda il mobbing, il termine mobbing (dal verbo to mob, “assalire”, “accerchiare”) è stato coniato agli inizi degli anni settanta dall’etologo Konrad Lorenz per descrivere un particolare comportamento aggressivo tra animali della stessa specie con l’obbiettivo di escludere un membro dello stesso gruppo ed è stato applicato al comportamento umano nei luoghi di lavoro dallo psicologo svedese Heinz Leymann. Nel mondo anglosassone si utilizza il termine bullyng.

Gli effetti negativi del mobbing, oltre a violare la dignità della persona, sono la demotivazione dei dipendenti, la riduzione della produttività, l’aumento dell’assenteismo e del turn over, la probabilità di controversie legali.

Va quindi prevenuto con strumenti adeguati come codici etici e di condotta, formazione del personale direttivo, procedure di ascolto e richiesta di intervento, sanzioni disciplinari per chi non si attiene alle regole di comportamento.

I comportamenti rilevanti: pressioni psicologiche (sarcasmo, discredito) calunnie sistematiche (diffamazioni, maldicenze), maltrattamenti verbali e offese personali, anche di fronte ad altri, rimproveri e critiche intimidatori (urla), isolamento e svuotamento delle mansioni,  compiti esorbitanti o eccessivi (o inutili e frustranti).

Un reato comunque che nel codice non esiste. “Nel nostro Codice penale, nonostante una delibera del Consiglio D’Europa che vincolava tutti gli Staiti  membri a dotarsi di normativa, non vi è traccia di una specifica figura per contrastare tale pratica persecutoria definita mobbing, solo vagamente assimilabile alla previsione di cui all’articolo 572 Codice penale, ma di questa non condivide tutti gli elementi tipici.

Il termine “mobbing” è uno dei più usati (e abusati) non solo nei dibattiti sulle relazione personali in azienda, ma anche nelle controversie giudiziari di lavoro. E’ sempre più difficile trovare un ricorso al giudice del lavoro dove la parola mobbing non sia pronunciata e una specifica definizione legislativa. Il termine descrive un fenomeno individuato e studiato dalla sociologia e dalla psicologia, non riconducibile però a una specifica categoria giuridica. Generalmente per mobbing si intende un insieme di sistematici e reiterati comportamenti ostili e persecutori tenuti nei confronti del lavoratore, da parte dei colleghi (mobbing orizzontale), di un superiore gerarchico (mobbing verticale), o dello stesso datore di lavoro (è il caso del cosiddetto “bossing”). Ad oggi, l’unica possibilità di attribuire rilevanza giuridica a simili condotte è quella di ricondurle, chiunque ne sia l’autore, a una violazione degli obblighi di sicurezza e di protezione dei dipendenti previsti dall’articolo 2087 Codice Civile. E’ questa, infatti, la norma che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, garantendo l’assenza di situazioni nocive per il benessere psico-fisico e la dignità personale. La violazione di questi doveri costituisce inadempimento contrattuale e può portare a un risarcimento dei danni che ne siano derivati. Ma la prova dei fatti che potrebbero costituire violazione della norma incombe sul lavoratore e non è agevole. Non basta infatti lamentare tensione nell’ambiente di lavoro o rimproveri da parte dei capi.
Una delle sentenze della Cassazione sul punto (n. 12048 del 31 maggio 2011) ha ribadito quali elementi devono sussistere perché possa essere ravvisata una condotta lesiva del datore:

a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio

b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente

c) il nesso causale tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore

d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio

Il primo elemento costitutivo è dunque quello della ripetitività, intensità, frequenza e durata nel tempo di azioni volte a procurare un danno al lavoratore, che non è certo semplice da dimostrare. Senza contare che, anche una volta accertata la violazione della norma, il risarcimento del danno non è automatico, bisognerà dare la prova di aver effettivamente subito un danno patrimoniale o meno. Il dibattito sul mobbing, in questi anni, ha coinvolto anche l’Inail, si è infatti discusso sull’indennizzo della malattia causata da mobbing da parte dell’istituto assicuratore. E’ oggi però pacifico che le malattie derivanti da mobbing non rientrano tra quelle stabilite per le quali l’origine lavorativa è presunta salvo prova contraria.

Pertanto non ci può essere  riconoscimento di malattia professionale senza la prova rigorosa del rapporto di casualità tra la malattia e le condotte di mobbing sul lavoro e il lavoratore non ha diritto ad alcun indennizzo.

Per informazioni e consulenze:

AR investigazioni Via D’Azeglio 29 Pisa tel. 335.84.00.592  

Qui di seguito alcuni artt. del Codice Civile che riguardano l’argomento

Codice Penale Libro secondo – Dei delitti in particolare Titolo XII – Dei delitti contro la persona Sezione III – Dei delitti contro la libertà morale

Art. 612. Minaccia. Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a euro 51. Se la minaccia è grave o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno e si procede d’ufficio.

Art. 615-bis. Interferenze illecite nella vita privata. Chiunque mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo. I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.